Accadde sulle montagne di Roccaraso negli anni ’20 dello scorso secolo.
Rimasi sconvolto e amareggiato, così come lo fu per tanto tempo il caro amico Alberto Olivieri, ormai andato oltre il cielo delle nostre montagne, che ha serbò nella sua mente fino a quel momento, con pudore, l’episodio sconosciuto che macchiò non solo il gesto del folle che lo compì e che restò ignoto, ma l’onore di questa ignara Comunità. Fu un cittadino di queste montagne o di qualcuno al seguito dei concorrenti arrivati da tutto il Centro-sud? Nessuno lo saprà mai. Ma il gesto spregevole fu compiuto su questi monti e perciò recò ignominia a Roccaraso laddove fu raccontato.
La vicenda mette a nudo la stupidità umana che spesso esplode con una violenza inaudita e ingiustificata e perciò quell’uomo si sarebbe dovuto identificare per essere additato al pubblico disprezzo e meritare la giusta punizione.
Un giorno dei primi anni sessanta, Alberto si trovava a Sulmona lungo una stradina del centro storico che lo conduceva alla fermata dell’autobus per tornare a Roccaraso e a metà percorso, stretto in mezzo a due file di case incontrò una persona ormai anziana, che scambiò con lui alcune parole per meglio orientarsi in quel dedalo di stradine. Costui appresa l’origine roccolana di Alberto, lo bloccò e incominciò ad agitarsi. Mentre si toglieva la giacca, la camicia e la maglia intima di lana gli disse che era di Capracotta e da giovane aveva partecipato a tante gare di sci di fondo; ma una, in particolare, lo aveva segnato nello spirito e soprattutto nel fisico: quella che si svolse a Roccaraso verso la metà degli anni venti. L’uomo si calmò, in silenzio scoprì, nonostante l’età, un fisico da atleta e sulla schiena possente apparve un segno spesso e violaceo che sbiadiva nel rosa da una scapola all’altra. Alberto non capì cosa gli fosse accaduto e disorientato per quell’improvviso gesto, chiese timidamente una spiegazione. La spiegazione gli fu data mentre dovette aiutare quella persona a rivestirsi, e lo fece con tanta attenzione quasi per chiedere scusa a ciò che non avrebbe mai immaginato di sentirsi dire. La ferita, ormai rimarginata, era il segno lasciato da una catena di ferro vibrata di nascosto lungo il percorso della gara per far sì che quell’uomo abbandonasse la competizione; era uno degli atleti più forti e forse avrebbe vinto.
Alberto finì di aiutare il vecchio atleta e a mala pena riuscì a mormorare qualche incomprensibile parola che esprimeva tutta la sua amarezza. In un attimo gli apparvero davanti agli occhi quelle valli, quei pendii, quei prati pieni di fiori, percorsi mille volte per appagare un suo costante desiderio di vivere giornalmente la natura che rigogliosa circondava il suo paese e cercò con lo sguardo perso e annebbiato, come se ci fosse un turbinio di neve indefinita, di capire dove si fosse trovato quell’uomo nel momento in cui fu colpito. Fu un breve momento, Alberto tornò alla realtà e cercò di vedere con gli occhi, umidi di commozione, ma anche di indignazione, dove fosse l’uomo di Capracotta per chiedergli il luogo preciso dell’episodio. L’uomo non gli era più vicino, lo vide appena scomparire in fondo al vicolo. Alberto corse, cercò di raggiungerlo per esprimergli tutta la sua solidarietà, ma dietro l’angolo non c’era più nessuno, l’uomo si era infilato in uno dei tanti vicoli lì d’intorno dove era scomparso per sempre.
Quando Alberto qualche tempo fa mi raccontò questo episodio, stavo preparando il libro CINQUEMIGLIA DI NOSTALGIA, una raccolta di documenti, immagini e racconti della storia sciistica di Roccaraso, scrissi immediatamente le sue parole, per non dimenticarle, ma soprattutto con l’intento di chiudere il libro proprio con il racconto dell’amara esperienza vissuta da quell’uomo. Volevo terminare con una frase per chiedergli scusa, qualcuno mi disse di non scrivere quel racconto, io ero convinto e deciso di farlo, ma alla fine desistetti.
Non ho più letto ciò che avevo scritto, ma ogni tanto l’episodio mi è tornato nella mente, ho sempre avuto la sensazione che invece avrei dovuto riportare lo sconcertante episodio, avevo il dovere di essere imparziale e scrivere con lealtà anche questo racconto che comunque fa parte della storia sciistica di quel periodo. Oggi rileggendolo per caso, conservato nella cartella dei documenti sul computer, ho deciso di renderlo noto. Mi ha aiutato a farlo il ricordo di un avvenimento accaduto alcuni anni orsono e rivisto in televisione non molto tempo fa, quando Giovanni Paolo II si recò a Gerusalemme e introdusse tra le pietre del “Muro del Pianto”, dopo averla pubblicamente letta, una lettera scritta agli Ebrei, attraverso la quale, la Chiesa Cattolica chiedeva perdono per i soprusi perpetrati verso quel popolo sfortunato. E’ stato uno dei tanti gesti che ci hanno fatto amare quel Papa.
In questo stesso momento, mentre le mie dita battono le lettere dell’alfabeto incise sulla tastiera del computer, mi rendo conto in maniera definitiva che quella sensazione di allora, di scrivere sul libro anche questo racconto, era giusta e oggi è più forte di prima.
Sono certo che raccontando senza pudore la storia poco edificante accaduta su queste montagne si renda giustizia a quel povero uomo, alla comunità di Capracotta e contemporaneamente di aver espresso indirettamente anche la solidarietà all’ignara comunità del paese dell’altro uomo, scellerato, che lo colpì con la catena: “Perdono, grande atleta scomparso nel nulla tra i vicoli di Sulmona!”