Mi sovviene il ricordo indelebile e quasi profumato dei banchi della scuola elementare, dove mi sono seduto negli anni tra il ’50 e il ’60 dello scorso secolo; erano di legno, a due posti e con la seduta fissa; il piano di appoggio dei libri e dei quaderni era in discesa e all’inizio di questa specie di pendio c’era un incavo per reggere l’asta col pennino, la matita e la gomma; a centro, affossato nel legno, un calamaio di vetro con l’inchiostro serviva i due scolari. La maestra, che allora era unica, si chiamava Girolmina e la bacchetta che ogni tanto girava tra le sue mani aveva come nome semplicemente l’abbreviazione del suo, “Mina”. Si trattava di una robusta e sottile striscia di legno, lunga una sessantina di centimetri, larga tre e proveniva dallo schienale di una sedia andata in disuso. Quando quella bacchetta veniva vibrata sulla nostra mano difficilmente riusciva ad incontrarla, perché ognuno di noi era lesto nel tirarla indietro; in questo caso però la dose veniva inevitabilmente raddoppiata. E quella benefica somministrazione, perché così osava pronunciarsi la “tiranna”, poteva anche triplicarsi se non si mostrava la responsabilità, unita al coraggio, di ammettere disarmato la colpa di non aver studiato o di aver disturbato o di non essere stato attento durante la lezione. Quando all’epilogo la bacchetta si abbatteva sulla mano, avvertivamo una vera e propria deflagrazione e le dita e il palmo si coloravano di un bel rosso vivo. All’epoca funzionava così e se tornato a casa osavi lamentarti o inavvertitamente mostravi il dolente arto ai genitori, beh! allora la punizione continuava inflessibile, senza se e senza ma; il suo appellativo era “il resto”, cioè quello che mancava per completare l’opera. Però, a dire il vero, era una situazione che accadeva raramente, il metodo educativo funzionava e in una classe di circa 25 bambini, quale era la mia, i voti più bassi partivano quasi tutti dal sei.
Accadde che quel lunedì un certo brusio, proprio all’inizio delle lezioni, incominciò a infastidire la maestra, la quale, rendendosi conto che qualcosa di strano stava accadendo in fondo all’aula, dove erano relegati un paio di ripetenti, si insinuò immediatamente tra i banchi di legno, mentre Mina incominciò a girare tra le sue dita, rendendo Girolmina simile al mazziere che conduce la banda per strada. E come quello aveva lo sguardo altero e profondo.
La domenica precedente, sui campi di sci sotto il trampolino di salto, Matteo aveva letteralmente rubato ad una signora una decina di cartoline che custodiva in una tasca dell’avvolgente senale; nell’altra tasca c’era una manciata di soldi spiccioli e qualche biglietto da cinquecento lire. Assunta era conosciuta a Roccaraso, perché d’inverno veniva con il treno da un paese sotto la Maiella a vendere le arance agli sciatori, che arrivavano davanti al suo bancone posticcio, dopo essere scesi lungo le piste della seggiovia dell’Ombrellone. Era un lavoro faticoso, per via del freddo e del peso di quel cesto che a stento riusciva a trascinare sopra una claudicante slitta che aveva rimediato da qualche parte e che l’oste della stazione ferroviaria gli conservava impietosito per la nota situazione che la riguardava. Assunta aveva tre figli e da un po’ di tempo gli era morto il marito; non aveva altro se non una piccola casa ad un piano e un ampio orto che la cingeva, da dove ricavava verdure e ortaggi per assicurare un minimo sostentamento alla sventurata famiglia. Quel rito si ripeteva d’estate, quando l’energica signora si recava con l’autobus di linea sulle spiagge dell’Adriatico tra Ortona e Vasto, per vendere ai bagnanti un po’ di frutta che aveva acquistato di primo mattino ad alcune fermate dell’automezzo. In quei posti qualche contadino amico di famiglia si faceva trovare con un cestino di frutta matura al punto giusto, riempito all’alba nel proprio terreno. Anche su quelle spiagge qualche uomo di buon cuore gli custodiva una specie di capiente carriola che Assunta spingeva a fatica sul bagnasciuga sotto il cocente solleone.
L’infaticabile donna aggiungeva una interessante passione a quelle faticose giornate gelide o accaldate, perché destinava una piccolissima parte del guadagno conseguito all’acquisto di qualche cartolina con l’immagine dei luoghi frequentati. Questo era il suo hobby e sicuramente l’unico diletto che si concedeva tra le varie sofferenze e gli innumerevoli impegni perseguiti con tutte le forze per condurre avanti e nel modo migliore la numerosa famiglia. La sera, sfinita dai lavori domestici e dell’orto, apriva una piccola ed elegante cassetta di legno e seduta su un cuscino adagiato per terra vicino al camino prendeva le mazzette di cartoline organizzate per località e rimirava le immagini, soffermandosi su ciò che mostravano di bello: le case, i viali e le piazze; i campi da sci e le spiagge; le situazioni dei vari personaggi immortalati, fossero sciatori, bagnanti o semplici cittadini. Spesso si addormentava, specialmente quando era rientrata a casa dopo la vendita della frutta. Qualche volta gli capitava di sognare e di trovarsi in una di quelle cittadine della costa, ma non per vendere la frutta, bensì per abitarci con i suoi figli. Il desiderio che l’attanagliava da quando li aveva messi al mondo e soprattutto da quando era rimasta sola, era di riuscire a dargli un’istruzione superiore, cosa impossibile dove viveva, lì c’erano solo la scuola elementare e media e per andare avanti con gli studi l’ostacolo principale sarebbe diventato l’acquisto dei tre abbonamenti per l’autobus che li avrebbe portati almeno giù a Casoli per frequentare le scuole superiori.
La maestra conosceva quelle vicissitudini, perché gliele aveva raccontate suo fratello, controllore sui treni che viaggiavano tra Sulmona e Isernia, e siccome era abituata alle irrequietezze del suo alunno ripetente, comprese immediatamente l’accaduto, dopo che il vicino di banco, intimorito anch’esso dalla bacchetta che girava con una espressione poco rassicurante, glielo aveva rivelato in maniera approssimativa. Mentre ascoltava, Girolmina aveva letteralmente gelato Matteo con lo sguardo, il quale, inchiodato alla sua responsabilità, aveva lasciato cadere in bella vista sul banco quelle dieci cartoline.
Nessuno fiatava, mentre si udiva forte e irrefrenabile il respiro del nostro compagno sotto accusa. La bacchetta che fino ad allora non si era mai fermata tra le mani di Girolmina all’improvviso si bloccò e il suo sguardo penetrò negli occhi del nostro sventurato amico. Tutti ci aspettavamo che Mina incominciasse a dire la sua e questa volta sarebbe stato un altro discorso, tanto Matteo l’aveva fatta grande. La maestra invece rimase impassibile e avemmo la netta sensazione che stesse pensando. In quel frangente noi c’eravamo un po’rilassati, mentre s’udiva ancora netto e ansimante il respiro dello sventurato scolaro.
Accadde invece che la maestra girò le spalle e andò a sedersi alla cattedra; poggiò la bacchetta su un libro alla sua destra e la prima cosa che notammo fu lo spegnersi del respiro dell’alunno ormai sotto processo. « Matteo vieni qui e porta quelle cartoline », disse Girolmina senza gridare. Il ragazzo incominciò a tremare e mosse i primi passi verso il supplizio. Tardò ad arrivare e nel frattempo la maestra con molta tranquillità e quasi non lo osservasse, incominciò a parlare della vita di quella signora, del marito che aveva perso ancora giovane, dei suoi stenti e dei suoi innumerevoli sacrifici, dei suoi figli che vivevano una vita grama ma dignitosa, del loro saper aspettare la mamma quando si allontanava per raggiungere i luoghi di lavoro, di quei ragazzi che riportavano voti eccellenti e che facevano a gara tra di loro per chi fosse il migliore. Poi, conoscendo molto bene i nostri difetti, ma anche i sacrifici che facevano i nostri genitori in quel periodo del dopoguerra, costellato per Roccaraso di macerie e di tante altre difficoltà, incominciò a creare alcuni paralleli tra la vita di quella famiglia che abitava ai piedi della Maiella e le nostre famiglie. Quel giorno non ci fu una lezione di storia, di geografia o di altre materie, ci fu una lezione di vita, una lezione che ho sempre portato nella mia mente, rafforzata quando anch’io a sedici anni ho perso il mio papà. Allora incominciai a guardare mia madre raffigurandola ad Assunta. Matteo nel frattempo aveva raggiunto la cattedra e si era fermato ad ascoltare la maestra che ogni tanto lo guardava, accennando anche a lui qualche parte saliente del suo lungo discorso che sicuramente lo poteva riguardare.
Mancava poco al suono del campanello per la ricreazione e a quel punto la maestra si rivolse allo studente che stava come impietrito affianco alla cattedra. Pronunciò solo una frase: « Non c’è bisogno che te lo spieghi, sono sicura che hai compreso cosa devi fare domenica prossima ». Poi si rivolse a noi e aggiunse: « Anche voi dovete accompagnare Matteo e mi raccomando, accertatevi che dopo aver restituito le cartoline pronunci ben nitide le sue scuse, perché io conosco molto bene Assunta e presto la incontrerò. Mi raccomando!». Girolmina non l’aveva mai incontrata, ma quella volta lo fece per la situazione che si era creata e anche per portargli una sua testimonianza di scusa e di affetto, in fondo questa storia spiacevole aveva riguardato un suo alunno.
La domenica successiva ci eravamo dati appuntamento alla fine della “Messa del fanciullo” che finì verso le dieci e tutti insieme, come in una processione salimmo fino alla spianata sotto il trampolino di salto per cercare la signora della Maiella. Assunta era lì, al suo posto, indaffarata a distribuire arance e quando la raggiungemmo sulla neve battuta dagli sci, notammo che nella cesta, allacciata con una sottile fune sulla slitta, era rimasta solo un’arancia. Quasi con una perfetta sincronia ci guardammo in faccia soddisfatti e nel proprio animo ognuno fu contento per lei, quel giorno sarebbe tornata prima a casa, col treno di mezzogiorno e i figli sarebbero rimasti contenti. La predica della maestra ci aveva resi un po’ più riflessivi, perché le sue parole si erano infisse inevitabilmente nel nostro cuore: Assunta era diventata quasi come nostra madre. Intanto Matteo si staccò dal gruppo, si avvicinò ad Assunta che era girata di spalle, quasi stesse prendendo un po’ di sole, e gli tirò quello stesso senale dove la domenica precedente aveva infilato la maldestra mano. Assunta si girò e guardandolo in un attimo gli chiese: « Ma tu non sei per caso il figlio di Giovanni, quello lì in fondo che conduce la slitta con gli sciatori?» Matteo rimase sorpreso e successivamente ci raccontò che in quell’attimo non era riuscito a rendersi conto di come avesse fatto a riconoscerlo. Ma la curiosità gliel’aveva soddisfatta immediatamente la donna: « Devi sapere che ormai sono diversi anni che vengo a vendere le arance e conosco tutti i proprietari delle slitte coi cavalli; qualche volta se sono senza sciatori a bordo mi aiutano a condurre fin quassù la slitta con le arance che attaccano alla loro. Sono bravi e qualche volta ti ho visto insieme a tuo padre, porti sempre quel cappello rosso col fiocco appeso ».
A questo punto si insinuò nella mente di Matteo il timore che suo padre potesse venire a sapere della mascalzonata compiuta e allora la bacchetta della maestra si sarebbe rivelata solo una dolce musica rispetto allo schioccare della cinta del pantalone del genitore sul suo sedere. Giovanni era un uomo tutto d’un pezzo, buono come il pane, ma tanto severo.
Comunque fu Assunta a toglierlo dall’imbarazzo: « Cosa vuoi? » Matteo a fatica spiegò cosa aveva combinato la domenica precedente, mentre dalla tasca del cappotto tirò fuori le cartoline di Roccaraso avvolte diligentemente in un foglio di giornale. Finita la spiegazione, alla quale aveva aggiunto ciò che era accaduto a scuola, allungò la mano e le restituì ad Assunta. La quale, da buona e brava mamma di famiglia aveva compreso ogni cosa e inaspettatamente si chinò, prese l’ultima arancia che era rimasta nel cesto e la mise nella sua mano destra. Quella brava e intelligente madre di tre figli, che come tutti i figli ogni tanto combinano qualche marachella più o meno importante, aveva compreso il timore del ragazzo al solo pensiero che il padre avesse saputo qualcosa. Così lo rassicurò, dicendogli che non lo avrebbe informato e che quello doveva restare un segreto tra loro due. Poi si rivolse a noi e ci raccomandò di non rivelare quello che aveva combinato il nostro amico. Noi annuimmo e Matteo fece per restituire l’arancia affermando che se l’avesse venduta avrebbe portato altri soldini a casa. Questo gesto ci sorprese, ma non sorprese Assunta che trovandosi vicino uno sciatore che si era fermato con un elegante telemark, gli girò immediatamente il frutto e ricevette cinque lire.
Andammo via e si sa, i ragazzi un cece in bocca non lo sanno tenere, soprattutto le ragazze, per cui alle orecchie di Giovanni arrivò la notizia della marachella del figlio. Ma non accadde nulla. Assunta finita la vendita lo aveva informato dei fatti e anche la maestra aveva fatto il suo dovere. Ci fu la netta sensazione che quella vicenda aveva insegnato ad ognuno di noi qualcosa di importante e quindi la storia finì in bellezza. Probabilmente anche Giovanni aveva compreso che tutto quello che era accaduto aveva insegnato molto a suo figlio, per cui poteva bastare così.
Ma nel corso del tempo Girolmina e la sua Mina ogni tanto tornarono ad essere impietose e così qualche bacchettata si abbatteva sulle mani di qualcuno di noi. Tutti avevano provato quel dolore e io non fui da meno.
Passarono gli anni, tanti. E io ne avevo più di cinquanta, quando nel mio ufficio comunale conobbi un architetto che aveva proposto al Sindaco l’acquisto di una collezione di cartoline. Gli raccontò della storia della nonna e del fatto che lui aveva continuato a collezionare altre cartoline. La raccolta su Roccaraso era diventata importante e siccome questo paese fu distrutto dai soldati tedeschi durante l’ultimo conflitto mondiale, aveva aggiunto che forse custodire tra i documenti comunali quelle foto, sarebbe stata la cosa più giusta, chiunque avrebbe potuto in quel modo conoscere Roccaraso com’era.
Sono diventato amico di Enrico, nipote di Assunta e da quel momento ho incominciato un’opera di ricerca sulla storia turistica e sciistica di Roccaraso. Oltre a quelle stupende immagini che ho avuto a disposizione, ho rintracciato articoli di giornali, documenti vari e racconti delle persone anziane del paese e anche dei figli e dei nipoti di quegli sciatori che forse apparivano in quelle cartoline. Ho scritto alcuni libri dove probabilmente ho riprodotto anche le dieci cartoline che Matteo rubò, per fortuna solo per una settimana, altrimenti chissà che fine avrebbero fatto. La slittovia di Roccaraso; Roccaraso la stagione della neve; Roccaraso 1943 kaputt!; Cinquemiglia di nostalgia; Roccaraso, due solchi sulla neve lunghi 100’anni; sono i libri che raccolgono la vita innevata di un tempo di questa località sciistica e turistica, in parte vissuta anche da Assunta con un ruolo importante.
Qualche tempo fa riflettevo sulle ricerche che ho compiuto press’a poco in un decennio ed ho cercato di dare una giustificazione a questo impegno improvviso che si è rivelato sicuramente una passione. E mi viene da dire che forse è dipeso da quel frenetico lavoro di ricerca che ci aveva insegnato la maestra Girolmina nel raccogliere le foglie cadute in autunno, i fiori sbocciati a primavera; nel mettere insieme le cortecce degli alberi, le pietre e tante altre cose che dovevamo rigorosamente e diligentemente catalogare. E quei banchi profumati di legno furono i testimoni del nostro apprendere. Sicuramente da allora è rimasto conservato in un angolo remoto del mio cervello un sistema che prima o poi doveva venir fuori. È stato così e sono contento di aver dedicato una parte della mia vita a raccontare le storie innevate del mio paese.